
Una ricerca pubblicata in Francia sembra smontare il mito dei siti “pro-anoressia”. In ogni caso, secondo gli esperti, è difficile generalizzare e mancano le risorse per affrontare il problema in tutta la sua complessità
In Francia è recentemente uscito il volume Le phénomène «pro-ana» Troubles alimentaires et réseaux sociaux in cui Antonio Casilli e Paola Tubaro affrontano il tema del supposto movimento “pro-ana” su internet. Un dibattito che ha portato, anche in Italia a disegni di legge che gli autori del libro ed esperti del settore ritengono piuttosto discutibili. Le questioni in campo sono molte e piuttosto delicate: apparentemente, infatti, sembrano esistere dei luoghi di incontro on-line che spingono all’anoressia, tanto che alcuni Stati europei hanno promosso una legislazione molto dura nei confronti delle persone che alimentano questi “luoghi”. La ricerca portata avanti da Antonio Casilli smentisce questa interpretazione, sebbene le generalizzazioni su temi così delicati siano pericolose, arrivando a spiegare l’esistenza di queste realtà in modo completamente diverso.
«All’inizio pensavamo che ci fosse un movimento organizzato di persone che rivendicano il diritto di essere anoressici – spiega Antonio Casilli – lavorando sul tema, però, ci siamo subito accorti che la situazione era completamente diversa da quella che ci eravamo immaginati». In pratica, condizionati da un pregiudizio radicato i ricercatori iniziano la loro analisi pensando di trovare una serie di siti, blog e forum intenti a promuovere, a esaltare l’anoressia, mentre invece la natura del materiale che ritrovano on line è molto diversa. «La ricerca, continua Casilli, nasce da una curiosità sociologica: se io interagisco con persone su internet mi desocializzo nella “vita reale”? Questo studio dimostra che la desocializzazione non esiste, al contrario, queste persone usano internet per aggiungere degli elementi alla loro vita di tutti i giorni, continuano ad andare a scuola a vedere amici, famiglia, non vivono nella solitudine ma aggiungono, alle persone che vedono tutti i giorni, interazioni di altro tipo, gruppi che rappresentano delle “socialità digitali”. È una sorpresa e dopotutto una cosa rassicurante».
In questo senso i luoghi di incontro on-line non sembrerebbero rappresentare così un’esaltazione, ma piuttosto, un modo per superare il problema?
«È proprio così. Andare in rete, rappresenta quasi una maniera di collettivizzare un’esperienza personale, perché quando si incomincia a evidenziare un sintomo, spesso legato a un disturbo alimentare, (ma anche alla maniera di percepire la tua apparenza fisica o il tuo stato mentale) lo si associa a forme di comorbilità (sviluppi anche altre malattia come depressione o problemi neurologici). All’inizio la risposta è il panico, ed è tale e tanto, che la prima cosa che hai bisogno, ricercando le esperienze di chi per questi stessi sintomi ci è già passato, è dare un senso a questa malattia».
Ed è a questo punto che interviene il legislatore con soluzioni simili in Francia, Inghilterra e Italia, punitive che dallo studio di Casilli, risultano non solo inefficaci, ma addirittura dannose. Lavoro, è bene sottolinearlo, finanziato dall’agenzia nazionale di ricerca francese, gestito da circa 30 ricercatori francesi e inglesi di diverso livello e che ha visto il coinvolgimento di associazioni sul territorio, composte da persone affette da disturbi alimentari, medici, professionisti della salute, personale medico e parenti.
«Dare un senso alla malattia è un gesto problematico, perché quando un ragazzo o una ragazza arrivano sul forum e dicono di voler essere perfetti, di voler pesare 40 kg o di voler vomitare tre, quattro volte al giorno, chi è che parla? la persona o la malattia? È il disturbo che parla? Se è quest’ultimo, che diritto ha il legislatore di reprimere questo tipo di discorso? sarebbe come dire che una persona depressa che dice online di volersi suicidare debba essere multata di decine di migliaia di euro o debba essere messa in prigione».
Su questi temi lavora da tempo Umberto Nizzoli presidente della SISDCA (Società Italiana per lo studio dei disturbi del comportamento alimentare), chiaramente il suo approccio è diverso da quello dello studio francese, in generale appare molto cauto. Evidenzia la necessità di non generalizzare dal momento che ogni caso andrebbe affrontato nella sua specificità, sottolinea le similitudini tra Italia e Francia dal punto di vista legislativo, sottolineando però la fragilità delle proposte, poi, in ogni caso ritirata, in Italia il 16 settembre 2015 (qui la proposta di legge). In generale però Nizzoli chiarisce come internet e il mondo online possano essere un modo, probabilmente sbagliato, ma spesso utile di mettere in luce il disagio. «L’online, – sottolinea Nizzoli – potenzialmente è una risorsa, è come il vicino di casa che può essere un alleato, un nemico o qualcuno che ti travia», rappresenta in ogni caso un punto di contatto con il malessere che dovrebbe essere approfondito, utilizzato per conoscere meglio la persona che abbiamo di fronte.
«Il problema – prosegue Casilli – non è neppure quello di stabilire se e quale funzione svolgano questi siti, ma il solo fatto che esistano è la dimostrazione che siamo di fronte a un problema di salute pubblica, serio e inquietante a livello di cifre. Sono sicuramente siti che portano posizioni e discorsi problematici, da qui a dire che sono tutti terribili e devono essere censurati il passaggio logico non esiste».
Il fatto di dichiarare questi sintomi, di dare collettivamente un senso alla malattia da effetti di radicalizzazione, provoca effetti di stabilizzazione della malattia o può promuovere fenomeni di imitazione?
«La nostra ricerca ha denotato che queste comunità on-line hanno impressionanti meccanismi di autoregolamentazione, se, per esempio, sei su un forum di discussione di persone bulimiche e qualcuno inizia ad avere parole problematiche o a lanciare messaggi particolarmente cupi o suicidali che deprimono tutti quanti, spesse volte il forum stesso si autoregolerà invitando questa persona a smettere di mandare quelle comunicazioni o di cambiare registro. Se invece censuriamo oltre ad essere terribilmente inefficaci, specialmente quando andiamo a intervenire sulla rete, per definizione pressoché ingovernabile, provochiamo dei disastri. Analizzando siti accusati di essere “pro ana” (tra 2010 – 2012 – 2014) abbiamo visto che l’effetto della censura annunciata o praticata, non influisce sul numero dei siti, che rimane pressoché stabile e inoltre, si causa la densificazione delle comunità che “minacciate” si fanno sempre più impenetrabili andando a rendere sempre più difficile il lavoro di chi come il Ministero della Salute o i medici cerchino di lanciare campagne di sensibilizzazione».
La risposta è sempre quella della censura? Non ci sono tentativi di governance?
«Gli esempi negativi sono Uk, Italia e Francia che dal 2008 cercano di mettere in campo sempre la stessa legge: da 1 a 2 anni di prigione e da 10 a 100mila € di multa per ogni persona che si ritiene faccia l’apologia dell’anoressia o della magrezza estrema. Idea assurda, ma è problematica perché è il classico caso di stato neoliberale che cerca di affrontare il problema senza investire sulla sua risoluzione. È ovvio che sarebbe molto più efficace una risposta di attenzione alla malattia capillare sul territorio, intervento però che al momento sembra aver costi enormi. Così, invece, al posto di spendere soldi per affrontare il problema, si diffondono leggi punitive che addirittura fanno guadagnare lo stato. Risposte alternative provengono da Paesi che hanno cercato di sviluppare autonomia dei pazienti, tipo in Olanda dove si sono finanziate le iniziative dei familiari dei pazienti. L’esempio è la piattaforma Proud2bme che permette ad ogni persona di esprimersi, di fare il suo blog in una libertà totale di espressione, su una piattaforma moderata e gestita che garantisce spazio di espressione evitando l’effetto clandestinità».
Ritieni che l’analisi che avete fatto possa essere traslata su altri argomenti, dando delle linee su come affrontare altre forme di estremismi su internet?
«No. È uno studio empirico molto specifico che non può essere allargato ad altri ambiti, la difficoltà di traslare questo messaggio è più grande perché c’è responsabilità degli stati europei specificatamente negli ambiti di salute nell’aver creato queste comunità on line. Perché da una parte tutti gli stati europei insistono sull’idea di dare autonomia al paziente, poi quando il paziente se la prende li punisce (perché non abbiamo equipaggiamento per gestirli) e ci sono responsabilità sulle politiche di spesa pubblica. Il caso della Francia è emblematico perché ha delle zone di deserto medico tali e tanti che per trovare una maniera di far fronte ai loro problemi vanno su internet e periodicamente adesso rischiano anche di farsi mettere in prigione».