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Un viaggio dai tempi antichi ad oggi per comprendere le origini e l’evoluzione dello spreco alimentare

A cura del Professor Paolo Grillo, UNIMI – Dipartimento di Studi Storici

Dal punto di vista storico, in età preindustriale lo spreco alimentare era causato nella maggior parte dei casi da problemi legati alla cattiva conservazione delle merci, nonché dalle perdite dovute alle guerre e, più raramente, da momenti di sovrapproduzione e di saturazione dei mercati.

Vi era però anche un altro importante elemento da tenere in considerazione: lo spreco appositamente ricercato e realizzato al fine di dimostrare la propria ricchezza e la propria capacità di spesa di fronte a un pubblico di commensali o di spettatori.

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Questo tipo di spreco era prerogativa dei gruppi sociali più elevati, per i quali consumare smodatamente grandi quantità di cibo era uno dei mezzi principali per affermare la propria superiorità nei confronti della gente comune. Il caso forse più evidente e noto è quello dei grandi banchetti promossi dai patrizi romani: si trattava di occasioni conviviali, ma anche di esibizioni di ricchezza, spesso caratterizzati da una grande esuberanza di cibo e di vino che venivano serviti in quantità ben superiori alle necessità.

Una portata dopo l’altra, queste occasioni conviviali si protraevano per parecchie ore e vedevano la messa in tavola di prodotti esotici provenienti da ogni parte dell’Impero. Non è vero, come talvolta si dice, che gli invitati quando erano sazi vomitassero appositamente per poter continuare a mangiare, ma sicuramente non doveva essere raro che alcuni commensali stessero male a causa della sovrabbondanza di cibo e di condimenti.

Fra Medioevo ed Età Moderna, la situazione non cambiò significativamente: gli aristocratici miravano a distinguersi dalla maggior parte della popolazione anche attraverso l’esibizione dei loro consumi alimentari: l’uso sistematico di grandi quantità di carne, soprattutto di maiale o cacciagione, era l’elemento più evidente, che veniva esibito in occasione di imponenti banchetti. Condimenti a base di spezie esotiche e vini di provenienza lontana completavano il quadro e rendevano memorabili gli eventi a cui venivano inviatati gli spettatori che si volevano impressionare.

A partire dal Basso Medioevo, alla quantità di cibo, cominciò ad affiancarsi la ricerca di qualità particolare, con la nascita dei primi manuali di arte culinaria, nei quali si affrontavano non solo gli abbinamenti di sapori e di ingredienti, ma anche un sofisticato uso dei colori e la realizzazione di impiattamenti spettacolari e d’effetto. Tutto ciò si accompagnava sempre alla sovrabbondanza dei prodotti, che in gran parte andavano sprecati o riutilizzati per nutrire gli animali domestici degli organizzatori. Il consumo eccessivo e sistematico di carne era indispensabile per rimarcare la superiorità degli aristocratici, ma causava loro anche seri problemi di salute, come dimostra la larga diffusione della gotta fra gli strati più alti della società.

Se guardiamo ai nostri giorni, pare a prima vista che un simile approccio all’alimentazione sia ormai abbandonato. Il consumo di cibo continua ad essere un evidente simbolo di successo sociale (si pensi al successo dei ristoranti stellati e pluristellati), ma il discrimine oggi pare essere più sulla qualità dei prodotti consumati che non alla loro quantità.

Prestando però una maggiore attenzione, vedremo che questi usi sono ancora diffusi, come dimostrano, ad esempio, le docce di champagne o di altri vini a cui si sottopongono piloti e sportivi in occasione delle celebrazioni delle loro vittorie. Non parliamo poi di certi pranzi di nozze o di altre occasioni di festa, nei quali sistematicamente la quantità di cibo prevista supera di gran lunga quella che gli invitati potranno ingerire. La necessità di una sana educazione al consumo deve dunque coinvolgere tutti gli aspetti, non soltanto educando gli acquirenti all’acquisto ragionato e alla corretta conservazione, ma anche sul rispetto verso il cibo e l’invito a non sprecarlo a semplici fini esibizionistici.

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Il riuso e l’accesso sociale ai beni di lusso

Nei negozi e nelle piattaforme di e-commerce si trovano oggi sempre più spesso in offerta oggetti “ricondizionati”, ossia usati e riparati e controllati in modo da poter essere rivenduti in buone condizioni, ma a prezzi inferiori rispetto a quelli originali. Si tratta di una prassi che consente di acquistare prodotti di lusso, normalmente considerati fuori dal budget familiare o individuale, prima limitata ad alcuni ambiti (si pensi al mercato delle autovetture usate, che spesso consente di comprare modelli di marche premium a costi accettabili), e oggi esteso a nuove realtà, dall’elettronica ai vestiti di moda.

In realtà, si tratta di una pratica dotata di una lunga tradizione, comunemente utilizzata in passato, soprattutto durante l’età preindustriale, quando la produzione di massa riguardava poche e ben specifiche tipologie di consumo e beni oggi considerati di disponibilità comune erano invece assai più rari e preziosi. Un esempio diffuso e significativo è rappresentato dagli oggetti di cuoio, in particolare le scarpe. Il processo di conciatura per ottenere questa caratteristica lavorazione delle pelli animali era lungo e costoso, dato che richiedeva tempi lunghi e infrastrutture fisse, come le vasche di macerazione. Inoltre, si trattava di un’attività molto inquinante, che produceva odori sgradevoli, e dunque spesso confinata in aree di difficile accesso, a una certa distanza dai centri abitati.

I prodotti in cuoio, dalle scarpe agli accessori di vestiario agli elementi di uso domestico, erano dunque costosi e ricercati, di alta qualità e dotati di decorazioni che li impreziosivano. Le ricerche archeologiche, ci mostrano però che la vita di questi oggetti non si esauriva nelle mani dei loro primi ricchi proprietari: quando infatti si logoravano e si danneggiavano, venivano riacquistati da calzolai specializzati, i quali li riparavano con cura e li rimettevano in vendita, ovviamente a un prezzo inferiore rispetto a quello di partenza. Il ciclo poteva ripetersi ancora, finché il bene diventava del tutto inservibile. Prima di questo momento, comunque, la continua diminuzione del prezzo lo rendeva accessibile a gruppi sociali via via meno prosperi, permettendo così anche alla massa della popolazione di accedere a prodotti inizialmente pensati per le élites.

Lo stesso processo si verificava per vestiti di lusso, oggetti in avorio o in metalli preziosi e altri beni di alta qualità. Spesso, la loro reimmissione nel mercato avveniva attraverso la mediazione di enti assistenziali e ecclesiastici, che li ricevevano in donazione, li facevano riparare e li rivendevano per sostenere così la propria attività. A Milano, fra tardo medioevo e prima età moderna, si distinse per esempio la Fabbrica del Duomo, che pagava i lavori di costruzione della cattedrale anche grazie alla rivendita di una grande quantità di oggetti di ogni tipo, offerti dai devoti e poi ceduti al migliore offerente.

L’uso, la riparazione e la rivendita dei beni di lusso, dunque, avevano un ruolo essenziale nel rendere accessibile a una parte più consistente della popolazione molti prodotti originariamente destinati a una ridotta élite. Si tratta in qualche forma di un processo di “democratizzazione” del consumo che consente l’accesso a determinati prodotti a una platea molto più ampia di quella originariamente prevista e che oggi stiamo riscoprendo, dando anche un valore ambientale ed ecologico a una prassi del riuso che vanta una tradizione più che millenaria.

Ordine sociale e antieconomicità delle abitudini alimentari

Il cibo è stato caricato in tutte le società e in tutte le epoche di valori simbolici forti, talvolta legati alla convivialità e alla condivisione, talaltra alla distinzione e all’autorappresentazione sociale. Per questo motivo le abitudini alimentari sono state costantemente condizionate e irrigidite da consumi indotti culturalmente.

Il cibo deve prima nutrire una mentalità collettiva e questo spiega l’antieconomicità di alcune scelte alimentari operate nel corso della storia da particolari categorie sociali. Si è già parlato dello spreco alimentare come strumento di ostentazione di ricchezza da parte dei gruppi sociali più elevanti ma il discorso può essere ulteriormente ampliato e riguarda i regimi alimentari come espressione di un ordine sociale precostituito.

Il principale parametro di distinzione fra l’alimentazione del ricco e quella del povero è stato nella storia sicuramente il prezzo delle cose che trasformava un semplice bene in un bene di lusso. Già gli antichi greci guardavano con desiderio ai prodotti esotici più costosi. Pare addirittura che ad Atene le acciughe, che lì si trovavano in abbondanza ed erano ricercatissime nel resto della regione, fossero disprezzate dalle élite ateniesi proprio per la loro facile reperibilità e quindi basso costo che le rendevano facilmente integrabili nell’alimentazione povera.

Tra i consumi esclusivi un ruolo di primo piano ricoprivano le spezie. L’enorme quantità di spezie utilizzare tra pieno Medioevo ed età moderna portava spesso a corrompere così tanto il gusto del piatto da non permettere al commensale di riconoscere cosa stava mangiando.

Anche questa era una precisa scelta di lusso che nulla aveva a che vedere con il tentativo di camuffare il sapore di alimenti in stato di deterioramento, come spesso si è erroneamente detto. Significativa in questo senso è anche la perdita di interesse dei signori medievali per il pepe rispetto all’ampio uso che ne faceva l’aristocrazia romana. Il motivo di questa parabola negativa va ricercato proprio nel deprezzamento del bene, ormai abbondantemente diffuso in occidente, che lo aveva reso accessibile ad una quota maggiore di popolazione. La perdita di esclusività del prodotto aveva indotto le classi abbienti a preferire alimenti altrettanto piccanti ma più costosi, sempre provenienti da lontano, come la varietà di pepe lungo indonesiano o la meleguetta.

Scelte di lusso riguardavano anche il colore dei piatti ai quali prestavano particolare attenzione i ricettari anglo-normanni del XIV secolo. Tra la gamma di colori che i ricettari prevedevano ve ne erano alcuni particolarmente difficili da reperire. Se il verde poteva essere rappresentato dal prezzemolo o dagli spinaci e l’oro dal tuorlo dell’uovo, il rosso e il blu richiedevano coloranti specifici che non avevano nessuna utilità dal punto di vista del gusto.  Ad esempio, per ottenere il rosso si utilizzavano prodotti esotici come l’estratto di legno di sandalo rosso o una particolare resina di Socotra che avevano costi elevatissimi ed erano difficili da reperire, tutti fattori che rendevano esclusivo il loro utilizzo.

Un altro elemento di distinzione era costituito dalla possibilità della scelta di alimenti accuratamente selezionati. Nel mondo classico la cucina dei ricchi prevedeva lo spreco di numerose sezioni dell’animale per consumarne solo una piccolissima parte a fronte di una cucina popolare che tendeva invece a recuperare tutto: il sangue mangiato come sanguinaccio, le budella utilizzate per le salsicce, il grasso di conservazione riutilizzato per la creazione di candele. Chi poteva permetterselo consumava principalmente carne di animali giovani acquistata fresca al mercato locale, i contadini invece erano soliti mangiare carne conservata sotto sale e spesso di animali vecchi che erano stati abbattuti solo dopo averne sfruttato appieno le potenzialità (produzione di latte e prodotti caseari e forza da traino nelle attività agricole).

In generale l’alimentazione delle classi abbienti era meno diversificata rispetto a quella contadina e a fronte di un consumo smodato di carne, pochissimi erano i consumi di verdura, frutta e legumi, considerati poco digeribili, se non per gli stomaci delle classi subalterne. Questa ossessiva selezione alimentare costituiva un modo irrazionale di gestire le risorse del sistema agro-pastorale e uno spreco ideologico di opportunità alimentari.

Inoltre, com’è noto ai più, la distinzione sociale passava anche per le differenti quantità di cibo a disposizione. Ad esempio, la cultura celtica proponeva il mito dell’uomo forte che mangiava molto. Ci sono esempi di gare dove l’abilità a consumare più e più in fretta è proposta come segno di virilità e nobiltà. Questa idea che un certo tipo di cucina e abitudini rispecchiassero le qualità intrinseche degli individui era un aspetto molto presente nella cultura medievale. Tutto, dunque, dalla qualità e natura del cibo, alle quantità consumate e alle modalità di preparazione concorrevano simbolicamente a individuare le virtù fisiologiche e la classe sociale di appartenenza, la “qualità della persona”, come dicevano i contemporanei.

Difficilmente si possono comprendere questi consumi sul piano della progettualità razionale. La selezione antieconomica degli alimenti e lo spreco cosciente possono essere chiariti solo attraverso la comprensione delle ideologie e mode alimentari che le provocarono.

La lunga storia della conservazione dei cibi

Una delle principali ragioni dello spreco alimentare nella storia, almeno quella preindustriale, è stata la cattiva conservazione dei prodotti. Questo non vuol dire però che già in età classica non si fossero sviluppati sistemi efficaci per garantire una vita più duratura ai cibi. Infatti, se è vero che la mancanza di grandi traffici internazionali aveva favorito un consumo di prodotti freschi di origine locale, è anche vero che per gli strati più poveri della popolazione la possibilità di immagazzinare scorte alimentari, seppur in esigua quantità, costituì una condizione necessaria per la sopravvivenza. Sin dall’epoca classica erano conosciute alcune tecniche in grado di contrastare il rapido deterioramento degli alimenti, per altro ancora molto usate ai giorni nostri ed entrate ormai nelle tradizioni culinarie regionali.

La più largamente diffusa era sicuramente la salagione. La proprietà che il sale possiede, di prosciugare gli organismi con cui viene a contatto, è alla base di quella che fu per millenni la sua prevalente funzione d’uso: favorire l’essiccazione delle derrate alimentari e renderle conservabili nel tempo, distruggendo i batteri in esse contenuti. Questa pratica fu ampiamente utilizzata lungo tutta l’epoca medievale per la conservazione della carne e del pesce ma anche delle uova, delle olive, delle verdure e degli ortaggi e la sua diffusione crebbe ancora di più dal XV secolo con l’esportazione in tutta Europa di aringhe, sardine, acciughe e merluzzi salati provenienti dal mare del Nord.

Altri sistemi di conservazione che si affiancava alla salagione erano l’affumicatura per le note proprietà antisettiche del fumo, ma anche l’utilizzo degli agenti atmosferici per l’essiccazione degli alimenti che avveniva spesso tramite l’esposizione al sole, al vento e al freddo. Ha origine medievale e probabilmente araba l’essiccazione della pasta la cui produzione è attestata sin dal XIII secolo in area ligure.

Una svolta decisiva nelle tecniche di conservazione alimentare avvenne senza dubbio nel XIX secolo per l’attenzione rivolta alla catena del freddo e all’ideazione degli antenati dei nostri moderni frigoriferi. La consapevolezza che il freddo fosse un agente conservante naturale è anch’essa però molto più antica. Ne è testimonianza la pratica empirica dell’abbattimento dei capi di bestiame tra novembre e dicembre perché la stagione fredda era quella più idonea al mantenimento delle carni.  Inoltre, le abitazioni di età medievale e moderna prevedevano la predisposizione di cantine sotterranee per lo stoccaggio degli alimenti e largamente diffuse era anche le strutture sotterranee per l’immagazzinamento del ghiaccio e della neve, chiamate conserve.

La svolta industriale nella conservazione dei cibi che si realizzò a partire dal XIX secolo ha preso quindi le mosse dai metodi empirici impiegati sin dall’antichità affinando tali tecniche attraverso nuove scoperte scientifiche. La Prima guerra mondiale ha costituito un acceleratore importante per la diffusione delle pratiche di conservazione e dell’industria frigorifera soprattutto per l’impellente necessità di garantire continuità di rifornimento agli eserciti ma anche alla popolazione comune. Alla fine del XIX secolo si datano anche i primi esperimenti di pastorizzazione, processo che prende il nome dal microbiologo Louis Pasteur, il quale aveva dimostrato che con un particolare trattamento termico del vino era possibile disattivarne i microrganismi indesiderati e gli enzimi responsabili del suo deterioramento.

Le nuove tecnologie di pastorizzazione, di inscatolamento e refrigeratorie nacquero da esigenze di approvvigionamento alimentare stringenti e finirono col sostenere un’economia alimentare interconnessa e interdipendente su scala mondiale basata su una produzione sovrabbondante che i mercati nazionali non potevano assorbire.

Sulle tecniche di conservazione si può dunque seguire una linea di continuità nel tempo, al contrario sulle necessità che hanno prodotto l’esigenza di un mantenimento più lungo degli alimenti, la cesura è più netta e solo in parte riguarda oggi la questione dello spreco alimentare.

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